Era steso su un letto d’ospedale, la finestra semichiusa irradiava la debole luce di un sole che stava ancora nascendo. Pareva che tutti dormissero. Ma lui non ne era più capace. Ogni notte, sentiva la propria voce che piano si affievoliva, fino a scomparire nel buio.
Un corteo di silenziosi fantasmi era sempre lì, nella sua mente. Erano i fantasmi di coloro che aveva ucciso, le anime che aveva reciso con indifferenza. Si tirava la coperta sin sul volto e piangeva per coprirle di lacrime. Vedeva persone morire, lì, dentro l’ospedale, ma le avvertiva lontane, gli occhi aperti di un uomo, ancora dopo la dipartita, sparivano coperti dalle schiene curve di chi, un tempo, amava. E ancora pianti.
Era davanti a lui, quel corpo che fino a poco prima cantava la sua gioia. Una donna prese la mano del morto, spenta. Quel contatto era insopportabile. Si voltò rapido. Pregò che Dio fosse clemente con lui; sotto le mani serrate, sotto la vestaglia, c’era una ferita profonda, dai lembi netti che, prima del suo arrivo in ospedale, cullava una pallottola sottile.
Come l’ospite inatteso, che arriva all’insaputa di tutti e che non ti lascia tregua.
Aveva lasciato la traccia della sua folle corsa verso il suo petto, culminata in quel tratto gonfio di dolore e sangue all’altezza del cuore.
Quando era sano, la sua mente lo induceva a pensare che niente lo avrebbe mai scalfito, niente avrebbe mai oscurato la sua forza. Un pensiero nato al suo primo omicidio e morto dopo anni, mentre cadeva a terra e, sopra di lui, un ragazzo caricava e sparava. Un istante e la sua forza divenne dolore. Il suo corpo agonizzante nella terra spaccata di un campo. La camicia si attaccava al solco lasciato dalla pallottola. Il cielo batteva la sua luce pura sul sangue che pareva vibrare, illuminarsi e cadere a fiotti nella sabbia. Egli teneva ancora stretta la pistola. Pensò più volte a spararsi per farla finita ma non ci riuscì. Rinvenne in ospedale. Aveva ancora la camicia e questo lo infastidì. Non riusciva ancora a pensare alla morte, vedeva quei lembi di carne dilaniati e insanguinati come se non fossero suoi, come se appartenessero a qualcuno, di sconosciuto. Li guardava, senza avvertire altro, se non il disgusto per quelle forme senza senso, come giunte da un mondo alieno, dove il dolore si unisce all’odio e al sangue.
Passavano così i giorni, il tempo con cui lottava per riprendersi la vita e allontanare la morte.
Il suo letto era vicino alla finestra, e si perdeva spesso ad osservare chi era sano, chi rideva, chi parlava. Voleva tornare a vivere, ad amare e ad uccidere. “Per miracolo è ancora vivo” dicevano.
Ma in verità avrebbe voluto morire: almeno all’inferno non si è fermi ad aspettare la morte, non si è immobili a trascinare pensieri passati.
In quel momento arrivò un'infermiera: ella sapeva chi era stato e cosa aveva fatto. Glielo si leggeva sul volto. Lui alzò una mano per mandarla via. Sotto gli occhi iniziava un sottile strato di barba che giungeva fino al collo, ricopriva le gote e superava il mento. Come una maschera che lascia intravedere solo due fessure colorate sotto l’attaccatura dei capelli. Si chiese come facesse la donna di prima a trascurare il suo tempo e passarlo con tutta quella gente malata. Non poteva che essere pazza, pensava.
Quella donna gli ricordava sua moglie, riservata e appassionata. Non era mai venuta a trovarlo. I suoi figli erano alla Facoltà di lettere, due ragazzi cresciuti bene, alti e forti. Ma anche loro non varcarono mai la soglia dell’ospedale. Disteso come era, guardava ciò che accadeva intorno, medici che camminavano e parlavano, quasi macchie bianche indistinguibili per i suoi occhi stanchi. Le linee squadrate dell’edificio erano la scatola che non lo lasciava uscire, i confini indelebili di quel mondo di sofferenza. Le luci provenivano dall’alto, ed erano bianche e forti, come tutto del resto. E proiettavano le ombre più lunghe che avesse mai visto, nelle serate come quella.
Era quasi mezzanotte, la piccola televisione sul muro proponeva i soliti dibattiti, mutando l’impenetrabile biancore della sala. Piano la porta si aprì, passi di cui non poteva udire l’origine nell’aria soggiogata dal dolore. Una mano che si alza, come quando si procede senza voglia, una sagoma che piano prese forma ai suoi occhi. E poi la divisa blu. Non provò nemmeno a contare le medaglie che la decoravano. In una mano, il poliziotto stringeva un fiore, fresco e con la corolla perfettamente rotonda. I due si scambiarono un saluto tacito, un gesto nel vuoto e un cenno forzato del capo. L’uomo in piedi pose il fiore sul comodino a fianco del letto, curvo sul suo stelo già morente. L’uomo sdraiato era sempre riuscito a sfuggire all’altro, ma quella volta non si mosse.
Il poliziotto sapeva e non fece altro che stare lì nella notte, immobile. I due si guardarono muti, come sconosciuti, un rapido sorriso si accese sulle labbra per poi svanire.
L’uomo sul lettino non osava nemmeno sospirare, quel silenzio mistico formatosi dopo l’arrivo dell’altro era impenetrabile.
La notte mutò. Gli occhi dei due erano talmente limpidi da intendersi senza parlare, come amici che si rivedono dopo un’eternità. Per loro ritrovarsi fu come colmare una parte nascosta di sé. La notte si spense e l’alba cominciò a sorgere. Il poliziotto gli mise una mano sulla spalla e sorrise di nuovo. L’altro rimase immobile a braccia conserte. Il silenzio fu rotto dai passi del poliziotto che se ne andava. Il fiore era già appassito, i petali erano secchi e ritorti, lo stelo senza vita, piegato e senza più foglie. L’uomo sdraiato tese una mano per prenderlo, ma questa cadde, esanime, prima di riuscirci.
Modena 21. febbraio. 2011 Giacomo Luppi
il delinquente scappa per una vita il poliziotto lo insegue tenace, senza odio anzi rispettandolo, l'incontro finale da il senso a chi persegue la giustizia non per l'annullamento di una persona fisica ma per la conferma di un principio
RispondiEliminabravo Giacomo!