Il 27 gennaio, giorno della Memoria, la terza G, con il contributo della seconda G, ha rappresentato i testi delle ricerche che l’hanno portata a rappresentare l’Emilia Romagna nel concorso nazionale “I giovani ricordano la Shoah””
Ecco il testo dello spettacolo:
La bandiera verde
Giacomo Luppi
Janusz Korczak udiva chiare le voci delle seicento piccole anime dell’orfanotrofio ebraico di Varsavia, scavato in un angolo del ghetto tra mura alte e languide.
seicento anime pallide e sottili testimoni di tutte le mancanze e di ogni attimo in cui, seppur senza motivo, hanno accolto la vita. Li sentiva tutti, invocare la misericordia di un dio che non li ascoltava.
Li sentiva mentre si inventavano le voci dei genitori che non avevano mai avuto, chiudere gli occhi per cullarsi a quel pensiero e sorridere.
Sorridere… Come facevano a sorridere? Pensava Janusz Korczak mentre li guardava. Su di loro un pallido sole accentuava il pallore dei loro volti e accendeva le lagrime che spesso rigavano loro le guance. Si chiedette se fossero ancora vivi. Quel vecchio uomo era il direttore dell’intero orfanotrofio, l’unico che provasse per quei giovani amore e compassione a tal punto da passare con loro i suoi ultimi giorni a questo mondo. Perché solo di questo era assolutamente certo, che, presto o tardi, il suo cuore avrebbe smesso di scuotergli il petto e la sua pelle avrebbe assunto il colore della neve e la durezza del sasso.
Una vocina lo risvegliò dai suoi pensieri: – Perchè piangi signor Korczak? – Chiese Anna: una bambina di quasi cinque anni, tirandogli un lembo della camicia.
- Non piango, Anna. – disse lui – Non bisogna piangere, vero? –
- Vero- balbettò lei, guardando in terra e indicando un bambino con un’enorme camicia marrone e una gamba magra e scarna avvolta in una scorza di bende giallastre: – Lui dice che presto arriveranno uomini cattivi e ci porteranno via da te. E’ vero anche questo signor Korczak?-
L’anziano direttore le mise una mano sul cranio minuto e le disse di non preoccuparsi, che questo non sarebbe mai accaduto. Sorrise. O perlomeno cercò di farlo, poi si alzò e camminò sui cocci del cortile: scarlatti ed arsi dal sole.
Sembrava fossero confinati li, in quell’orfanotrofio, ma se fossero usciti la prigionia sarebbe divenuta morte. Il bambino dalla camicia marrone stava giocando con lo spago legato ad un ramoscello. L’anziano si chinò su di lui: – Yaacov chi ti ha detto quelle parole?-
- Nel ghetto lo dicono tutti e di solito quello che la gente dice è vero.-
- Ebbene non credere in ciò che dice la gente.- Controbattè l’uomo, quasi adirato dalle parole del bambino.
- Quando voi grandi vi accigliate è perché state dicendo una bugia. – La camicia si mosse nell’aria e il bambino corse via con il suo spago. Come fosse stato uno spirito, fugace ed evanescente, scomparve alla vista e continuò a giocare. Solo il flebile risuonare dei suoi piedi sui cocci, non faceva intuire la sua scomparsa. Solo il ricordo delle sue parole, non faceva credere a Korczak di aver parlato con la propria mente. L’uomo si alzò e si aggiustò le lenti spesse che gli circondavano gli occhi grigi. Sbuffò e scosse il capo come a voler essere vissuto in un’altra epoca, in un altro mondo. Lontano da tutto ciò che vuol dire essere uomini. Lontano dagli scempi che nascono dalla nostra mente. Lontano da tutto, se non dai suoi bambini.
Egli camminava piano, verso la sua stanza, voleva solo riposare.
Aprì la porta senza far rumore, il lume sul comodino creava una luce aspra e chiara che proiettava ombre lunghe sulle pareti. Come gemelli che ci guardano immoti da un altro mondo.
Non capiva come tutto quell’odio potesse essere riversato su di loro, come si potesse uccidere, senza rimorso, senza vergogna. Si distese sul letto e si coprì le gambe stanche, poggiò gli occhiali sul comodino e si osservò sul vetro opaco dalla montatura nera. Vide il suo volto, gli occhi chiari e piccoli, ma non avvertì che stanchezza e desolazione. Niente più calore sul volto magro. Dormì molto quella notte, così come le seguenti e ripudiava il mattino, quando i sogni si aprivano alla realtà e ai suoi orrori. Le giornate passavano brevi, tutte uguali alle precedenti.
Si parlava solo di un luogo, dove pareva avrebbero portato tutti quelli del ghetto, un luogo di fatica e di morte. La loro esistenza come trattenuta per poco a questa Terra. Dovevano credere di essere ancora vivi, perché se l’avessero chiesto a chiunque, avrebbero ricevuto solo silenzi e pianti.
Erano ore senza tempo e significato, ore senza una storia da raccontare, se non quella del loro pacato terrore.
Sino all’ alba del quattro Agosto 1942, quando Janusz Korczak è destato dalla sua stessa frenesia. Il capo stremato che si ergeva fiero sulle spalle concave.
:Alzatevi bambini, alzatevi tutti!-Continuava a gridare con la sua voce ferma e pesante.
I primi fremiti del risveglio sui loro corpicini stipati su letti logori. Come abitanti di un mondo alieno:Più sincero ed immediato del nostro. Si guardavano intorno frastornati: occhi grandi rivolti a quel loro piccolo mondo.
:Forza, è ora di svegliarsi bambini!-Seguitò Korczak.
La grande stanza che conteneva i bambini si riempì di suoni e di rumori: tutti quei piedi scalzi sul pavimento freddo e quelle urla stridule.I letti si svuotarono, parevano ossa vuote e squadrate. Nella sala grande tutti i bambini si lavavano con i piccoli saponi rettangolari distribuiti dagli educatori: Wilczynska, Broniatowska, Szternfeld.
Contemplavano gli oggetti verdi e ridevano ogni volta che gli sfuggivano dalle mani. Tutto l’ orfanotrofio si accese della felicità dei bambini, della loro inconsapevolezza e della loro innocenza. Per la prima volta dalla sua apertura l’ orfanotrofio in Via Dzielna numero 39 ospitò bambini felici.
Le loro risa coprivano il pianto trattenuto di Janusz Korczak.
La sua figura alta e magra davanti ai suoi orfani, ai suoi seicento bambini; colpevoli di aver vissuto come ebrei.
Tutti si rivestirono in fretta, quei visi non più coperti dalla maschera di polvere e di sporcizia parevano cambiati, parevano più adulti e consapevoli.
Poi un suono sordo e basso. Un treno che si ferma sulle rotaie, i freni che stridono e l’ acciaio che si blocca. Urla e latrati e spari verso l’ azzurro del cielo.
Nessuno pianse, nessuno si lamentò; tutti erano immobili come personaggi di un quadro antico e statico .Passò poco tempo, conteso nel silenzio dell’ attesa e nella terrificata curiosità e nove uomini giunsero nell’ orfanotrofio. Una svastica colorava la casacca sul braccio sinistro, odio e cinismo tendevano i loro volti bianchi. Lunghi tubi neri di morte tra le mani.
Qualcuno chiese sussurrando se quelli fossero uomini. Qualcun altro disse piano di no, quelli non erano uomini.
I seicento seguitarono a camminare con a capo Janusz Korczak che teneva per mano un piccolo bambino. Con l’ altra mano teneva una grande bandiera verde, simbolo di amore e giustizia. L’ unico colore che quel giorno si avvertì. Non ci furono conflitti, nessuno cercò di scappare. Anche i soldati nazisti ammutolirono: vedevano sfilare muti quei piccoli uomini, i loro occhi pieni di parole.
Entrarono nel treno. Partirono.
Tutti e seicento trovarono la morte nel campo di sterminio fascista di Treblinka, ma fino all’ ultimo Janusz Korczak e i suoi bambini sono stati vicini. Come un padre con i propri figli. Come un angelo che protegge gli uomini da sé stessi.
LA MEMORIA
Federico Carrozzo
Mi ritrovai davanti alla strada una bambina.
Il cielo colmo di nuvole,gli occhi colmi di lacrime.
Mi condusse per mano in una strada tortuosa,
al di la del mio essere,mi trascinava tra i fascinosi arbusti foderati di edera con la corteccia intarsiata di morte,nel bosco tappezzato di foglie.
Mi ritrovai nella notte di vetro a pregare affinché nulla mi accadesse.
La bambina non aveva nome,il ricordo di esso era stato sommerso da cumuli di cenere,quando la portarono via dal suo giardino di gerani,
nel pallore d’Aprile.
Mi raccontò di favole di seta,di nuovi orizzonti, di un migliaio di soli. Il male della vita la mangiava dentro,gli occhi suoi dicevano tutto quello che non ci siamo detti mai,ma ripetuti sempre.
Mi raccontò di preghiere nell’oblio in quel campo di sterminio,mi raccontò dei suoi occhi semichiusi incrostati di fuliggine,delle sue labbra flagellate dall’ inverno,mi raccontò il suo sentirsi diversa, di una razza inferiore.
Ella si alzò, scalza,mi disse di non dimenticare le cose belle della mia vita,ma di non rimuovere neanche le cose brutte affinché esse ci possano far diventare uomini migliori.
Intonando un canto ebraico che alle mie orecchie pareva angelico,aprì una strada nel vento seguita da altri come lei; scomparendo in un cumulo di fumo.
Ritornai sui miei passi, nella strada che ormai mi pareva monotona, non volevo dimenticare quella strage di milioni di persone.
Tornai a casa,presi un foglio bianco scrivendo macchie nere che volevano essere parole.
Ho piegato il papiro d’oggi come un aeroplano e dal
terrazzo della casa da cui si scorge un piccolo pezzo di mondo , pur colmo di vita,
l’ho lanciato nel vento delle cose, senza voler sapere dove andasse.
CALA IL SIPARIO
Federico Carrozzo
Cala il sipario sulla memoria.
Cala la sera sulla nostra storia,
plasmata di fango e filigrana
guardando l’oscurità che si allontana.
Ascolta il rumore che tace
il tumulto nella pace,
lo scorrere della vita troppo veloce,
nel cuore Dio, in spalla una croce.
Ci ritroviamo qui ,nel grande silenzio
a ripartir le lacrime
che scivolano sul tuo cuore di vetro,
lo stesso vetro appannato
su cui scrivevo parole d’amore.
Cala il sipario
Comincia il calvario
Scriverai la tua ribellione
sugli angoli del mio diario,
sugli specchi infranti dal grido rivoluzionario.
Nel grembo della notte ,
provo a ghermire il sole ,
coriandoli di luce
illuminano questo oblio ,
in cui affogo ormai da sempre.
Qualcuno mi salvi ,
dal martirio di queste notti,
dalla crudeltà della vita ,
da questa ripa scoscesa.
Voglio veder crescere i grani dorati ,
su questa terra intrisa di sangue ,
in attesa di un mondo che non mi disprezzi ancora.
Cala il sipario sulle nostre sorti ,
cala la sera su i sogni mai morti.
lo stesso vetro appannato
che scivolano sul tuo cuore di vetro,
su cui scrivevi parole d’amore.
Cala il sipario.
Comincia il calvario,
Scriverai la tua ribellione sugli angoli del mio diario.
Sugli specchi infranti dal grido rivoluzionario.
QUI
Chiara. Vaccari.
e pensavo che la vita avesse solo una fine certa
ma ora qui rinchiusa in questo treno
ho voglia di aggrapparmi ad ogni secondo
per continuare a sognare
Gli ultimi attimi
Di Nasta. Riccardo.
Fissavo la lapide ormai ormai corrosa. Rimanevo attonito cercando di approfondire nei minimi particolari. Additavo un pezzo di pietra tutta rugosa e sentivo sulle mani come quasi ad accarezzarmi, l’esile tocco di rugiada attaccata al macigno…. Il mio sguardo provava a decifrare quelle lettere ormai sciolte dalla gloria… Come inaccessibili….Quasi come sepolte, non riuscendo ad immaginare niente. Si leggeva a malapena la scritta disturbata dal continuo cadere di foglie senza più un anima. Il nome era addobbato da un sottile strato di muffa… La lapide portava il nome di Angelo Fortunato Formiggini ebreo laico. Posavo alla lapide il sasso umido. Appena posai il sasso ebbi come un fremito. Mi incamminai con passo felpato al centro. Alzavo lo sguardo e scrutavo in lontananza la prima brina di ottobre che mi picchiava ferocemente sulla fronte. Ad un tratto mi inchiodai al suolo per salvare nella mia memoria quel paesaggio indimenticabile… In pieno tramonto roseo e ben longilineo si osservava la possente Ghirlandina ricoperta interamente da un velo. All’improvviso mi vennero in mente la brutalità subita da tutti quei milioni di Ebrei… E uno in particolare: Formiggini il quale divenne leggenda per il suo suicidio dalla Ghirlandina. Arrivai con un sussulto di fronte a ella. Ad un tratto vidi un uomo che camminava tra i quasi infiniti scalini in grande proporzione. Strinsi gli occhi per osservare le atroci figure in lontananza. Banchi di nebbia nell’aria tranquilla, si dispersero come se non volessero mostrarmi niente. Ormai l’individuo solcò l’ultimo scalino e profanò l’immenso pavimento polveroso. Le persone curiose si avvicinarono come quasi stringere la torre per capire cosa stava accadendo… Erano persone semplici… Semplici e normali… E i notabili… Persone importanti per farsi notare e il loro disprezzo che avevano per tutti.
Riconobbi subito il viso disperso di quel povero… Era Formiggini… Senza neanche una spiegazione plausibile… Si lanciò come un angelo giù dalla torre… Come se fosse un dirupo. Formiggini ruppe il grande nastro della propria vita. Le grida dei passanti; il sorriso sogghignante dei notabili. Il corpo si schiantò al suolo provocando un enorme tumulto alle orecchie assordandole. E ancore le grida delle donne… Il prete tutto titubante si avvicinava e come quasi a graziarlo gli poso un velo bianco sul viso.
Alcuni pensarono che lo fece per mostrare…. Alcuni dissero esplicitamente che fece una morte da ebreo… Non consumando i soldi di un proiettile.
Ma io penserò sempre che la sua anima si sarà sciolta soltanto in gloria…
Il silenzio
Federica Gardinali.
L’unica cosa che resta è un urlo di silenzio,
Siamo solo pezzi di vita senza voce,
Loro chi sono?
Cosa vogliono?
Che abbiamo fatto?
Zitti, zitti tutti, tutti quanti.
Una voce, una sola voce.
Noi, silenzio.
Ma il silenzio è il grido più forte.
Vi divertite?
Giocate, giocate pure.
Ammaestrate le nostre anime fino alla morte.
Nessun lamento, non ne vale la pena.
Cessata la vita, che resta di noi?
Briciole, briciole di fumo che si placano su spalle assassine.
Spalle che mai si pentiranno,
ricoperte da un velo di vita altrui,
atrocemente steso dalla colpevolezza feroce
di aver prosciugato anime ingenue.
Un fiato stanco di essere respirato ci assale, precedendo la morte.
Siamo qui, e abbiamo il coraggio di non fare rumore.
Uccidici.
Ma ricordati che il silenzio, resta il grido più forte.
Prefazione:
In questo racconto, narro in prima persona prendendo le parti di Angelo Fortunato Formiggini, e sto percorrendo insieme al mio amico dallo pseudonimo Italo Svevo una viuzza del centro, lungo la quale parliamo della nostra religione: l’ebraismo. Entrambi infatti erano di religione ebraica, allora contrastata.
Una passeggiata con Italo
Federica Gardinali.
Una sinistra e antica neve si affievoliva, quasi sciogliendosi, ricadendo stanca sulle mie spalle. Il cappotto consumato assorbiva l’anima pungente dei fiocchi, mentre un respiro quasi affannoso usciva dalla mia bocca.
Rivolsi gli occhi verso Italo. Lui con sguardo bovino e ingenuo mi osservò. Poi saltò su dicendomi: “ Angelo, ripensavo a quei momenti… in cui ho avuto paura, paura di loro, i tedeschi. Ma cos’è la paura? “ – Io placidamente risposi-“ La paura? La paura è quando vuoi scappare, sei rinchiuso nelle mura del tuo corpo, e non trovi via d’uscita, ti senti imprigionato per sempre. Non esiste via di fuga dalla paura. “ Dissi concludendo il prima possibile. Non mi piaceva parlare delle mie debolezze. Lui annuì soddisfatto. Una lacrima di neve si squagliò rapida sulla punta del mio naso raffreddandolo. Lacrime, pensai. Quante lacrime dovevano essere state versate nell’enorme vasca della rabbia. Rabbia per le ingiustizie. Lacrime ebree. Quanta paura di morire. La stessa paura di cui mi parlava Italo. Scoppiai in una risata per sdrammatizzare, come mio solito, ottenendo il solito sguardo vuoto del mio amico. Senza che mi venissero poste domande esclamai: “ Avverto nell’aria che mi stanno copiando, allora rido ! Come dico sempre io “ Non copiare nessuno, ridi se ti copiano!”. Italo sbuffò. Visto che eravamo in tema, aggiunsi: “ Perché dovresti avere paura di loro ? Sono esattamente come noi. Anzi, noi siamo umani. Sì siamo ebrei. Ma cosa cambia? Se tu, tedesco, stessi per morire e io dovessi curarti, ti cambia qualcosa se le mani che ti hanno salvato accendono sei candele, una ogni giorno ? Ti cambia qualcosa se spesso indosso un cappellino, per te ridicolo? E se tengo la barba lunga? E se al sabato riposo completamente e mi dedico alle mie preghiere? No… allora, perché dovresti avere paura?”- Italo fece una faccia scandalizzata, poi si girò e mi disse: “ Certo, ma, noi, proprio perché siamo umani, abbiamo paura di loro. Dobbiamo averne, non sai cosa puoi aspettarti. Mio caro Angelo, ridici sopra, non capiscono che noi, stando in silenzio, abbiamo causato il grido più forte.”- Sorrisi avidamente. Lo so, sto diventando avido di sorrisi, egoista. Mi serviva questa chiacchierata con Italo. Mi sento meglio, respiro aria nuova. Un fiocco scavalcò il mio labbro superiore. Eravamo arrivati. Ecco la caffetteria.
Ecco il testo dello spettacolo:
La bandiera verde
Giacomo Luppi
Janusz Korczak udiva chiare le voci delle seicento piccole anime dell’orfanotrofio ebraico di Varsavia, scavato in un angolo del ghetto tra mura alte e languide.
seicento anime pallide e sottili testimoni di tutte le mancanze e di ogni attimo in cui, seppur senza motivo, hanno accolto la vita. Li sentiva tutti, invocare la misericordia di un dio che non li ascoltava.
Li sentiva mentre si inventavano le voci dei genitori che non avevano mai avuto, chiudere gli occhi per cullarsi a quel pensiero e sorridere.
Sorridere… Come facevano a sorridere? Pensava Janusz Korczak mentre li guardava. Su di loro un pallido sole accentuava il pallore dei loro volti e accendeva le lagrime che spesso rigavano loro le guance. Si chiedette se fossero ancora vivi. Quel vecchio uomo era il direttore dell’intero orfanotrofio, l’unico che provasse per quei giovani amore e compassione a tal punto da passare con loro i suoi ultimi giorni a questo mondo. Perché solo di questo era assolutamente certo, che, presto o tardi, il suo cuore avrebbe smesso di scuotergli il petto e la sua pelle avrebbe assunto il colore della neve e la durezza del sasso.
Una vocina lo risvegliò dai suoi pensieri: – Perchè piangi signor Korczak? – Chiese Anna: una bambina di quasi cinque anni, tirandogli un lembo della camicia.
- Non piango, Anna. – disse lui – Non bisogna piangere, vero? –
- Vero- balbettò lei, guardando in terra e indicando un bambino con un’enorme camicia marrone e una gamba magra e scarna avvolta in una scorza di bende giallastre: – Lui dice che presto arriveranno uomini cattivi e ci porteranno via da te. E’ vero anche questo signor Korczak?-
L’anziano direttore le mise una mano sul cranio minuto e le disse di non preoccuparsi, che questo non sarebbe mai accaduto. Sorrise. O perlomeno cercò di farlo, poi si alzò e camminò sui cocci del cortile: scarlatti ed arsi dal sole.
Sembrava fossero confinati li, in quell’orfanotrofio, ma se fossero usciti la prigionia sarebbe divenuta morte. Il bambino dalla camicia marrone stava giocando con lo spago legato ad un ramoscello. L’anziano si chinò su di lui: – Yaacov chi ti ha detto quelle parole?-
- Nel ghetto lo dicono tutti e di solito quello che la gente dice è vero.-
- Ebbene non credere in ciò che dice la gente.- Controbattè l’uomo, quasi adirato dalle parole del bambino.
- Quando voi grandi vi accigliate è perché state dicendo una bugia. – La camicia si mosse nell’aria e il bambino corse via con il suo spago. Come fosse stato uno spirito, fugace ed evanescente, scomparve alla vista e continuò a giocare. Solo il flebile risuonare dei suoi piedi sui cocci, non faceva intuire la sua scomparsa. Solo il ricordo delle sue parole, non faceva credere a Korczak di aver parlato con la propria mente. L’uomo si alzò e si aggiustò le lenti spesse che gli circondavano gli occhi grigi. Sbuffò e scosse il capo come a voler essere vissuto in un’altra epoca, in un altro mondo. Lontano da tutto ciò che vuol dire essere uomini. Lontano dagli scempi che nascono dalla nostra mente. Lontano da tutto, se non dai suoi bambini.
Egli camminava piano, verso la sua stanza, voleva solo riposare.
Aprì la porta senza far rumore, il lume sul comodino creava una luce aspra e chiara che proiettava ombre lunghe sulle pareti. Come gemelli che ci guardano immoti da un altro mondo.
Non capiva come tutto quell’odio potesse essere riversato su di loro, come si potesse uccidere, senza rimorso, senza vergogna. Si distese sul letto e si coprì le gambe stanche, poggiò gli occhiali sul comodino e si osservò sul vetro opaco dalla montatura nera. Vide il suo volto, gli occhi chiari e piccoli, ma non avvertì che stanchezza e desolazione. Niente più calore sul volto magro. Dormì molto quella notte, così come le seguenti e ripudiava il mattino, quando i sogni si aprivano alla realtà e ai suoi orrori. Le giornate passavano brevi, tutte uguali alle precedenti.
Si parlava solo di un luogo, dove pareva avrebbero portato tutti quelli del ghetto, un luogo di fatica e di morte. La loro esistenza come trattenuta per poco a questa Terra. Dovevano credere di essere ancora vivi, perché se l’avessero chiesto a chiunque, avrebbero ricevuto solo silenzi e pianti.
Erano ore senza tempo e significato, ore senza una storia da raccontare, se non quella del loro pacato terrore.
Sino all’ alba del quattro Agosto 1942, quando Janusz Korczak è destato dalla sua stessa frenesia. Il capo stremato che si ergeva fiero sulle spalle concave.
:Alzatevi bambini, alzatevi tutti!-Continuava a gridare con la sua voce ferma e pesante.
I primi fremiti del risveglio sui loro corpicini stipati su letti logori. Come abitanti di un mondo alieno:Più sincero ed immediato del nostro. Si guardavano intorno frastornati: occhi grandi rivolti a quel loro piccolo mondo.
:Forza, è ora di svegliarsi bambini!-Seguitò Korczak.
La grande stanza che conteneva i bambini si riempì di suoni e di rumori: tutti quei piedi scalzi sul pavimento freddo e quelle urla stridule.I letti si svuotarono, parevano ossa vuote e squadrate. Nella sala grande tutti i bambini si lavavano con i piccoli saponi rettangolari distribuiti dagli educatori: Wilczynska, Broniatowska, Szternfeld.
Contemplavano gli oggetti verdi e ridevano ogni volta che gli sfuggivano dalle mani. Tutto l’ orfanotrofio si accese della felicità dei bambini, della loro inconsapevolezza e della loro innocenza. Per la prima volta dalla sua apertura l’ orfanotrofio in Via Dzielna numero 39 ospitò bambini felici.
Le loro risa coprivano il pianto trattenuto di Janusz Korczak.
La sua figura alta e magra davanti ai suoi orfani, ai suoi seicento bambini; colpevoli di aver vissuto come ebrei.
Tutti si rivestirono in fretta, quei visi non più coperti dalla maschera di polvere e di sporcizia parevano cambiati, parevano più adulti e consapevoli.
Poi un suono sordo e basso. Un treno che si ferma sulle rotaie, i freni che stridono e l’ acciaio che si blocca. Urla e latrati e spari verso l’ azzurro del cielo.
Nessuno pianse, nessuno si lamentò; tutti erano immobili come personaggi di un quadro antico e statico .Passò poco tempo, conteso nel silenzio dell’ attesa e nella terrificata curiosità e nove uomini giunsero nell’ orfanotrofio. Una svastica colorava la casacca sul braccio sinistro, odio e cinismo tendevano i loro volti bianchi. Lunghi tubi neri di morte tra le mani.
Qualcuno chiese sussurrando se quelli fossero uomini. Qualcun altro disse piano di no, quelli non erano uomini.
I seicento seguitarono a camminare con a capo Janusz Korczak che teneva per mano un piccolo bambino. Con l’ altra mano teneva una grande bandiera verde, simbolo di amore e giustizia. L’ unico colore che quel giorno si avvertì. Non ci furono conflitti, nessuno cercò di scappare. Anche i soldati nazisti ammutolirono: vedevano sfilare muti quei piccoli uomini, i loro occhi pieni di parole.
Entrarono nel treno. Partirono.
Tutti e seicento trovarono la morte nel campo di sterminio fascista di Treblinka, ma fino all’ ultimo Janusz Korczak e i suoi bambini sono stati vicini. Come un padre con i propri figli. Come un angelo che protegge gli uomini da sé stessi.
LA MEMORIA
Federico Carrozzo
Mi ritrovai davanti alla strada una bambina.
Il cielo colmo di nuvole,gli occhi colmi di lacrime.
Mi condusse per mano in una strada tortuosa,
al di la del mio essere,mi trascinava tra i fascinosi arbusti foderati di edera con la corteccia intarsiata di morte,nel bosco tappezzato di foglie.
Mi ritrovai nella notte di vetro a pregare affinché nulla mi accadesse.
La bambina non aveva nome,il ricordo di esso era stato sommerso da cumuli di cenere,quando la portarono via dal suo giardino di gerani,
nel pallore d’Aprile.
Mi raccontò di favole di seta,di nuovi orizzonti, di un migliaio di soli. Il male della vita la mangiava dentro,gli occhi suoi dicevano tutto quello che non ci siamo detti mai,ma ripetuti sempre.
Mi raccontò di preghiere nell’oblio in quel campo di sterminio,mi raccontò dei suoi occhi semichiusi incrostati di fuliggine,delle sue labbra flagellate dall’ inverno,mi raccontò il suo sentirsi diversa, di una razza inferiore.
Ella si alzò, scalza,mi disse di non dimenticare le cose belle della mia vita,ma di non rimuovere neanche le cose brutte affinché esse ci possano far diventare uomini migliori.
Intonando un canto ebraico che alle mie orecchie pareva angelico,aprì una strada nel vento seguita da altri come lei; scomparendo in un cumulo di fumo.
Ritornai sui miei passi, nella strada che ormai mi pareva monotona, non volevo dimenticare quella strage di milioni di persone.
Tornai a casa,presi un foglio bianco scrivendo macchie nere che volevano essere parole.
Ho piegato il papiro d’oggi come un aeroplano e dal
terrazzo della casa da cui si scorge un piccolo pezzo di mondo , pur colmo di vita,
l’ho lanciato nel vento delle cose, senza voler sapere dove andasse.
CALA IL SIPARIO
Federico Carrozzo
Cala il sipario sulla memoria.
Cala la sera sulla nostra storia,
plasmata di fango e filigrana
guardando l’oscurità che si allontana.
Ascolta il rumore che tace
il tumulto nella pace,
lo scorrere della vita troppo veloce,
nel cuore Dio, in spalla una croce.
Ci ritroviamo qui ,nel grande silenzio
a ripartir le lacrime
che scivolano sul tuo cuore di vetro,
lo stesso vetro appannato
su cui scrivevo parole d’amore.
Cala il sipario
Comincia il calvario
Scriverai la tua ribellione
sugli angoli del mio diario,
sugli specchi infranti dal grido rivoluzionario.
Nel grembo della notte ,
provo a ghermire il sole ,
coriandoli di luce
illuminano questo oblio ,
in cui affogo ormai da sempre.
Qualcuno mi salvi ,
dal martirio di queste notti,
dalla crudeltà della vita ,
da questa ripa scoscesa.
Voglio veder crescere i grani dorati ,
su questa terra intrisa di sangue ,
in attesa di un mondo che non mi disprezzi ancora.
Cala il sipario sulle nostre sorti ,
cala la sera su i sogni mai morti.
lo stesso vetro appannato
che scivolano sul tuo cuore di vetro,
su cui scrivevi parole d’amore.
Cala il sipario.
Comincia il calvario,
Scriverai la tua ribellione sugli angoli del mio diario.
Sugli specchi infranti dal grido rivoluzionario.
QUI
Chiara. Vaccari.
e pensavo che la vita avesse solo una fine certa
ma ora qui rinchiusa in questo treno
ho voglia di aggrapparmi ad ogni secondo
per continuare a sognare
Gli ultimi attimi
Di Nasta. Riccardo.
Fissavo la lapide ormai ormai corrosa. Rimanevo attonito cercando di approfondire nei minimi particolari. Additavo un pezzo di pietra tutta rugosa e sentivo sulle mani come quasi ad accarezzarmi, l’esile tocco di rugiada attaccata al macigno…. Il mio sguardo provava a decifrare quelle lettere ormai sciolte dalla gloria… Come inaccessibili….Quasi come sepolte, non riuscendo ad immaginare niente. Si leggeva a malapena la scritta disturbata dal continuo cadere di foglie senza più un anima. Il nome era addobbato da un sottile strato di muffa… La lapide portava il nome di Angelo Fortunato Formiggini ebreo laico. Posavo alla lapide il sasso umido. Appena posai il sasso ebbi come un fremito. Mi incamminai con passo felpato al centro. Alzavo lo sguardo e scrutavo in lontananza la prima brina di ottobre che mi picchiava ferocemente sulla fronte. Ad un tratto mi inchiodai al suolo per salvare nella mia memoria quel paesaggio indimenticabile… In pieno tramonto roseo e ben longilineo si osservava la possente Ghirlandina ricoperta interamente da un velo. All’improvviso mi vennero in mente la brutalità subita da tutti quei milioni di Ebrei… E uno in particolare: Formiggini il quale divenne leggenda per il suo suicidio dalla Ghirlandina. Arrivai con un sussulto di fronte a ella. Ad un tratto vidi un uomo che camminava tra i quasi infiniti scalini in grande proporzione. Strinsi gli occhi per osservare le atroci figure in lontananza. Banchi di nebbia nell’aria tranquilla, si dispersero come se non volessero mostrarmi niente. Ormai l’individuo solcò l’ultimo scalino e profanò l’immenso pavimento polveroso. Le persone curiose si avvicinarono come quasi stringere la torre per capire cosa stava accadendo… Erano persone semplici… Semplici e normali… E i notabili… Persone importanti per farsi notare e il loro disprezzo che avevano per tutti.
Riconobbi subito il viso disperso di quel povero… Era Formiggini… Senza neanche una spiegazione plausibile… Si lanciò come un angelo giù dalla torre… Come se fosse un dirupo. Formiggini ruppe il grande nastro della propria vita. Le grida dei passanti; il sorriso sogghignante dei notabili. Il corpo si schiantò al suolo provocando un enorme tumulto alle orecchie assordandole. E ancore le grida delle donne… Il prete tutto titubante si avvicinava e come quasi a graziarlo gli poso un velo bianco sul viso.
Alcuni pensarono che lo fece per mostrare…. Alcuni dissero esplicitamente che fece una morte da ebreo… Non consumando i soldi di un proiettile.
Ma io penserò sempre che la sua anima si sarà sciolta soltanto in gloria…
Il silenzio
Federica Gardinali.
L’unica cosa che resta è un urlo di silenzio,
Siamo solo pezzi di vita senza voce,
Loro chi sono?
Cosa vogliono?
Che abbiamo fatto?
Zitti, zitti tutti, tutti quanti.
Una voce, una sola voce.
Noi, silenzio.
Ma il silenzio è il grido più forte.
Vi divertite?
Giocate, giocate pure.
Ammaestrate le nostre anime fino alla morte.
Nessun lamento, non ne vale la pena.
Cessata la vita, che resta di noi?
Briciole, briciole di fumo che si placano su spalle assassine.
Spalle che mai si pentiranno,
ricoperte da un velo di vita altrui,
atrocemente steso dalla colpevolezza feroce
di aver prosciugato anime ingenue.
Un fiato stanco di essere respirato ci assale, precedendo la morte.
Siamo qui, e abbiamo il coraggio di non fare rumore.
Uccidici.
Ma ricordati che il silenzio, resta il grido più forte.
Prefazione:
In questo racconto, narro in prima persona prendendo le parti di Angelo Fortunato Formiggini, e sto percorrendo insieme al mio amico dallo pseudonimo Italo Svevo una viuzza del centro, lungo la quale parliamo della nostra religione: l’ebraismo. Entrambi infatti erano di religione ebraica, allora contrastata.
Una passeggiata con Italo
Federica Gardinali.
Una sinistra e antica neve si affievoliva, quasi sciogliendosi, ricadendo stanca sulle mie spalle. Il cappotto consumato assorbiva l’anima pungente dei fiocchi, mentre un respiro quasi affannoso usciva dalla mia bocca.
Rivolsi gli occhi verso Italo. Lui con sguardo bovino e ingenuo mi osservò. Poi saltò su dicendomi: “ Angelo, ripensavo a quei momenti… in cui ho avuto paura, paura di loro, i tedeschi. Ma cos’è la paura? “ – Io placidamente risposi-“ La paura? La paura è quando vuoi scappare, sei rinchiuso nelle mura del tuo corpo, e non trovi via d’uscita, ti senti imprigionato per sempre. Non esiste via di fuga dalla paura. “ Dissi concludendo il prima possibile. Non mi piaceva parlare delle mie debolezze. Lui annuì soddisfatto. Una lacrima di neve si squagliò rapida sulla punta del mio naso raffreddandolo. Lacrime, pensai. Quante lacrime dovevano essere state versate nell’enorme vasca della rabbia. Rabbia per le ingiustizie. Lacrime ebree. Quanta paura di morire. La stessa paura di cui mi parlava Italo. Scoppiai in una risata per sdrammatizzare, come mio solito, ottenendo il solito sguardo vuoto del mio amico. Senza che mi venissero poste domande esclamai: “ Avverto nell’aria che mi stanno copiando, allora rido ! Come dico sempre io “ Non copiare nessuno, ridi se ti copiano!”. Italo sbuffò. Visto che eravamo in tema, aggiunsi: “ Perché dovresti avere paura di loro ? Sono esattamente come noi. Anzi, noi siamo umani. Sì siamo ebrei. Ma cosa cambia? Se tu, tedesco, stessi per morire e io dovessi curarti, ti cambia qualcosa se le mani che ti hanno salvato accendono sei candele, una ogni giorno ? Ti cambia qualcosa se spesso indosso un cappellino, per te ridicolo? E se tengo la barba lunga? E se al sabato riposo completamente e mi dedico alle mie preghiere? No… allora, perché dovresti avere paura?”- Italo fece una faccia scandalizzata, poi si girò e mi disse: “ Certo, ma, noi, proprio perché siamo umani, abbiamo paura di loro. Dobbiamo averne, non sai cosa puoi aspettarti. Mio caro Angelo, ridici sopra, non capiscono che noi, stando in silenzio, abbiamo causato il grido più forte.”- Sorrisi avidamente. Lo so, sto diventando avido di sorrisi, egoista. Mi serviva questa chiacchierata con Italo. Mi sento meglio, respiro aria nuova. Un fiocco scavalcò il mio labbro superiore. Eravamo arrivati. Ecco la caffetteria.
capolavori! il futuro della letteratura italiana!
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