domenica 17 aprile 2011

Assassinio alle Ferraris: l'ultima attesissima puntata

Il giorno seguente, alle sette in punto, Saraceni entra nel cortile della scuola. Fa uno strano effetto questo silenzio: una scuola senza ragazzi è un posto assurdo, niente urla, niente risate… L’ispettore ha passato il pomeriggio precedente a esaminare i suoi appunti, mentre continuavano senza nessun esito le ricerche del professor Filippini, il preside. Ma dove si era cacciato? Possibile che non si riuscisse a trovarlo e in un momento simile!?

“Intanto andiamo avanti con gli interrogatori-, si dice Saraceni, mentre varca la porta a vetri della scuola. Nella guardiola dei bidelli, ancora un po’ assonnati lo aspettano Aldo, il vicepreside e un fabbro.
“Vorrei dare un’occhiata all’armadietto della vittima”, chiede l’ispettore.
Aldo lo accompagna in una stanzetta senza finestre, dove, in fila, uno dopo l’altro, ci sono degli armadietti di ferro, come quelli delle palestre. A Saraceni basta uno sguardo per rendersi conto che l’armadietto di Lina è stato manomesso: qualcuno ha cercato di forzarne la serratura.  Fortunatamente l’armadietto ha resistito. Il fabbro lo apre in un batter d’occhio.  All’interno un ombrello, un maglioncino, qualche pacchetto di fazzoletti di carta, e, in basso, sotto una pila di fogli per fotocopiatrice, due buste: una contiene una mazzetta violetta, dei biglietti da 500 euro nuovi di zecca; nell’altra ci sono invece dei documenti. L’ispettore raccoglie le due buste e torna immediatamente in centrale. Gli è bastato uno sguardo ai documenti per capire tutto: il caso è risolto, ma bisogna fare in fretta adesso il tempo incalza.
Appena in macchina chiama Alboni, il suo collaboratore: “Procurati subito un mandato e vai in via Dabbene, 22… Sì, certo è la casa di Filippini, ma non credo che lo troverai. Spero tu trovi quello che credo e… che non sia tardi… Fa’ presto, io passo dalla Centrale poi ti raggiungo”.
Ora si corre contro il tempo. Saraceni va in ufficio, fa una chiamata alla clinica Salus, poche parole, e poi chiama il suo superiore.  Poi di corsa per le scale, in macchina e in qualche minuto è in via Dabbene. Entra nella villetta, i suoi sono già là. In casa tutto è in ordine. Scendono in cantina, c’è un buoi pesto. Accendono la luce, una lampadina da pochi watt illumina la stanza. In un angolo, c’è una gabbia di ferro e lì dentro lacero e confuso trovano un uomo: il preside Luisi. Arriva l’ambulanza e riparte immediatamente per l’ospedale con dentro Luisi: è debilitato, denutrito, ma se la caverà.
“Adesso non resta che aspettare”, si dice Saraceni, mentre torna in ufficio.
Alle diciassette e venticinque arriva una telefonata:
“Lo abbiamo preso! Era all’aeroporto di Milano e tentava di prendere l’aereo per Rio. Lo riportiamo lì.”
Sono le nove di sera quando Filippini entra in centrale. È un uomo pallido, magro, dallo sguardo tagliente”.
“Si accomodi- gli dice Saraceni – lei ed io dobbiamo proprio fare due chiacchiere! Signor Carlo Luisi… perché è questo il suo nome, non è vero? Signor Carlo Luisi la incrimino per l’assassinio di Lina Ferrari e per il tentato omicidio di suo cugino, Renato Luisi. Ha diritto di chiamare il suo avvocato. Ha diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere, ma se io fossi al suo posto direi tutto quello che so, per non aggravare la mia posizione…”
Ecco la storia. Carlo e Renato Luisi erano cresciuti insieme, due bambini della stessa età, stessi compagni di gioco, stessa scuola. Renato era un bambino simpatico, intelligente, benvoluto da tutti, Carlo era chiuso, mediocre, strano.
Quando erano diventati adolescenti le differenze fra i due avevano cominciato a pesare: Renato era andato all’università, Carlo si era fatto cacciare dal liceo e aveva abbandonato gli studi. In più era stato ricoverato in una clinica, la clinica Salus: manie di persecuzione. Dopo le dimissioni dalla casa di cura, aveva vissuto all’estero per una trentina di anni. L’estate scorsa, era rientrato a Modena e aveva incontrato i vecchi parenti. L’incontro con il cugino, preside di una scuola, aveva scatenato la sua invidia repressa e aveva deciso di fargliela pagare. Così, alla fine di agosto aveva invitato il cugino a casa sua, l’aveva drogato e messo in una gabbia, in cantina.
“Perché non l’ha fatto fuori?”, gli aveva chiesto il pubblico ministero al processo.
“Che gusto ci sarebbe stato, volevo che soffrisse, come avevo sofferto io quando lui era sempre il primo e io…”
Si era procurato da un amico dei documenti falsi e il primo settembre aveva varcato le porte della scuola del cugino.
Purtroppo, un giorno, aveva lasciato sulla scrivania una cartellina con dei suoi veri documenti. Una svista imperdonabile. Lina Ferrari doveva essere entrata nell’ufficio e aver visto i documenti: “Era sveglia la ragazza, deve aver capito tutto in un attimo”
Li aveva presi e fatti sparire. Da quel giorno erano iniziate le telefonate della donna che chiedeva soldi per tacere. “Mi stava dissanguando, voleva soldi, sempre più soldi e io non ne avevo più!”.
Era sveglia, già, ma anche molto sciocca, non aveva calcolato di aver a che fare con un malato di mente.
Enrico Mancini  e la seconda B
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